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«La sconfitta della storia e la speranza del futuro»

La Redazione
Novant'anni fa nasceva il Partito Comunista d'Italia. Di Gaetano Bucci
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Il Partito Comunista Italiano non esiste più già da una ventina d’anni. Fu spazzato via dal crollo del muro di Berlino e dalla caduta dell’Unione Sovietica.

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La sconfitta storica della più grande ideologia dei lavoratori e del proletariato trascinò nel baratro il più grande partito comunista d’Europa. Il PCI si era distinto nel dopoguerra, specie dopo i fatti d’Ungheria del 1956, come il solo partito comunista alla ricerca di una nuova via al socialismo. Una via autonoma dal comunismo di stato e dittatoriale dell’Unione Sovietica, della Cina e di altre nazioni. Di fatto questo tentativo non riuscì mai, e mai il PCI ebbe la possibilità di governare l’Italia. Nonostante ciò la storia del PCI si iscrive in modo significativo in quella della nazione italiana.

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Nel secondo dopoguerra, e specialmente negli anni sessanta e settanta, il contributo del PCI alla crescita della democrazia italiana fu notevolissimo. Le grandi conquiste dei lavoratori, i progressi sociali delle masse, l’emancipazione delle donne, il riconoscimento dei giovani come grande soggetto collettivo, la nascita di una cultura laica di massa si devono in gran parte al PCI.

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Il PCI era un partito fortemente e rigidamente strutturato. La sua compattezza organizzativa e la sua capillare diffusione sul territorio, specie nelle aree urbane a grande concentrazione industriale ed in quelle rurali con significativa presenza del latifondo, gli permisero di essere l’unica vera opposizione di certe derive neocapitaliste e neofasciste dell’Italia del secondo dopoguerra.

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Tra il 1976 e il 1982, a pochi anni dal successivo inarrestabile declino, il PCI ebbe il suo massimo storico di consensi, arrivando a toccare oltre un terzo dell’intero elettorato sia alle elezioni politiche che a quelle europee. Sempre in quegli anni si ebbe la sensazione, anzi la concreta possibilità, che le forze del PCI si potessero unire a quelle della DC in una grande svolta della politica italiana, quella del “compromesso storico”.

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Di fatto questo tentativo fu bloccato prima dalla tragica morte di Aldo Moro, dall’ingresso con un ruolo di leader di Bettino Craxi e del Partito Socialista Italiano e da nuovi equilibri internazionali. Poi vennero i convulsi anni Ottanti, gli anni della “Milano da bere”, gli anni del “rampantismo economico” che ebbero come corollario ed esito finale la corruzione dei partiti tradizionali e la valanga di Tangentopoli.

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Il vignettista Vauro ha detto che non si sa come questo novantesimo anniversario del PCI debba essere ricordato, se con una torta o una corona di fiori. Forse né con l’una né con l’altra. Il modo migliore per ricordare la data della sua nascita è, secondo me, quello del “silenzioso ricordo”. C’è infatti bisogno di una grande riflessione collettiva sulle contraddizioni che attanagliano e strozzano lo sviluppo del capitalismo globalizzato.

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Contraddizioni che giorno dopo giorno stanno annullando alcune grandi conquiste del mondo del lavoro, che stanno facendo arretrare la società civile al ruolo passivo di “massa di consumo”, i cittadini a “telespettatori ruminanti”. Contraddizioni che hanno reso le giovani generazioni completamente incapaci di “sognare”, se non una futura società senza classi e senza lavoro alienante, almeno una senza grandi ingiustizie e con un lavoro quantomeno sicuro e dignitoso.

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La nostra, specie quella italiana, è una società venuta fuori un po’ “a sorpresa” dalla degenerazione di antichi vizi e ingenuità collettive. In primis, una malcelata forma di egoismo, di personalismo e di disinteresse per il destino comune, che si sono tradotti nella incapacità di dare vita e forma a nuove formazioni politiche e ad efficaci organizzazioni degli interessi generali e collettivi. E’ questo vuoto che in futuro bisognerà colmare. Chissà se si riuscirà a farlo. Oppure se per farlo bisogna aspettare qualche evento politico, economico o sociale catastrofico.

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Anche a Corato il PCI ebbe un significativo ruolo nella vita politico-amministrativa, oltre che in quella dello sviluppo sociale ed economico della città. Peccato che tra i tanti intellettuali locali nessuno, pur essendo di sinistra e figlio di quella storia, abbia avuto la sensibilità e la volontà di raccontarne i diversi momenti, le lotte, le sofferenze ed anche le conquiste. Figli immemori, o semplicemente figli frustrati e svogliati, rispetto ad una vicenda che si è chiusa con grandi delusioni, ripensamenti ed anche qualche voltafaccia.

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Chissà, se nel giorno del novantesimo compleanno del PCI non si siano rivoltati nella tomba quanti, anche a Corato, sperarono sinceramente in una società moderna di “riscatto degli iloti”, di libertà e uguaglianza dei contadini, dei disoccupati, degli emigrati, degli emarginati.

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Certo è che nella nostra città la lotta epica degli ultimi e dei più deboli ebbe come avversari non solo le forze retrive della conservazione economico-politica e della reazione ideologica, ma anche quelle che si richiamavano ai valori del “cattolicesimo sociale” o a quelli sacri “della famiglia e della patria”. A dire la verità questi ultimi, i veri cattolici e i sinceri nazionalisti ed ex-combattenti, non nutrirono odio verso i comunisti. In gran parte erano anch’essi gli ultimi, o poco più. Erano anch’essi alla ricerca di un riscatto.

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Così se proprio dobbiamo ricordare i “comunisti” di Corato, da Giovanni Ripoli a Cristoforo Mosca e Vincenzo Tota, dai fratelli Abbattista a Peppino De Vanna e Pasquale Lops, fino ai più giovani Aldo Mosca e Giovanni Montaruli, non possiamo fare a meno di dire che essi tutti hanno cercato di aprire nella nostra città una prospettiva nuova, una prospettiva di riscatto dei lavoratori, una prospettiva di crescita ed emancipazione dei giovani e delle donne. Né le piccole debolezze in cui anche questi uomini abbiano potuto incorrere diminuisce il valore dello sforzo collettivo del partito in cui essi per decenni militarono.

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Ed è certo un dato significativo che l’unico parlamentare comunista che Corato abbia avuto, l’on.le Pasquale Lops, fosse un semplice “bracciante agricolo”. Questo credo sia il segno e il simbolo di una modesta ma significativa “epopea civile” di Corato. Una epopea di cui dovremmo essere grati e orgogliosi, come lo siamo dei coratini che in circostanze e contesti diversi hanno dato la loro vita per la nazione o semplicemente l’hanno persa sul lavoro lontani dalla loro città d’origine.

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La scomparsa del PCI, anche a Corato, non può allora significare che non ci sia ancora uno spazio di lotta per una riscossa sociale e politica, che non ci siano conquiste future da fare, che non ci siano più “sogni di libertà nuove e nuove uguaglianze” da realizzare. Semplicemente bisogna saperli vedere e sentire questi nuovi orizzonti. Sono già tutti davanti a noi.

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Sono i nostri giovani che si stanno “disperdendo per il mondo”, sono le migliaia di emigrati extracomunitari che aspettano risposte di vera integrazione e di scambi con le loro terre e culture, sono i disoccupati, gli anziani, i malati, gli emarginati ed anche la nuova categoria dei “video-spettatori” che passano la loro vita nella solitudine televisiva e nell’alienazione informatica. Sono questi i nuovi soggetti che aspettano risposte dalla storia nazionale e da quella locale.

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Chi riuscirà a rappresentare in una nuova formazione politica queste categorie che non sono il vecchio ed ormai inesistente “proletariato operaio e contadino”?

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Forse c’è anche da noi bisogno di speranza vera, di speranza di un mondo migliore possibile. Come quello che veniva vagheggiato dalle note dell’“Internazionale” e di “Avanti Popolo!”. Note che ancora risuonano quasi religiosamente nei cuori di chi dalla storia aspettava un nuovo sole, quello dell’Avvenire. Il “sole degli uomini” che forse non è affatto diverso dalla luce dell’Eterno.

domenica 23 Gennaio 2011

(modifica il 27 Luglio 2022, 7:42)

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