La storia

Addio a Michele Lastella, custode dei racconti su attività agresti e aratri di fine ‘800

Marina Labartino
Michele Lastella davanti ù arecchiòne
Si è spento, dopo una vita di grande lavoro vissuta nelle campagne del nostro territorio, Michele Lastella, prezioso custode di racconti e procedimenti legati alle nostre tradizioni più antiche
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Si è spento, dopo una vita di grande lavoro vissuta nelle campagne del nostro territorio, Michele Lastella, prezioso custode di racconti e procedimenti legati alle nostre tradizioni più antiche, insuperabile collezionista di utensili agricoli e finimenti per cavalli, protagonista indiscusso di innumerevoli edizioni della sfilata di Carrozze e carri agricoli di inizi ‘900 organizzata dal cav. Vito Scatamacchia, prima con il circolo ippico Castel del Monte e da pochi anni con la Pro loco Quadratum.

Di seguito l’intervista pubblicata su Lo Stradone di dicembre 2020/gennaio 2021, in cui l’indimenticabile signor Lastella, mostrandosi onorato e oltremodo felice di vedere narrate le vicende custodite nella sua memoria sulle pagine dello storico giornale di Corato, diceva “Da buon seminatore, con te spargo chicchi di saperi antichi. Qualcuno leggendomi, li lascerà cadere tra i rovi, tra i sassi, sulla strada. Ma altri finiranno in terreni fertili. E così non andranno persi”.

L’autunno avanza a grandi falcate, pallido nel velario di seta delle nebbie che fumano a fior di terra. I biondi ed assolati campi di grano sono solo un ricordo, le vigne hanno perso il loro tesoro e il vino novello ha già rallegrato la tavola delle prime feste.

Michele Lastella, classe 1932, agricoltore e “trainìere” da una vita è proprietario e custode del “carràte”, uno dei pezzi agricoli più rari, usato per trasportare mosto e uva appena pigiata dai vigneti alle cantine. Ci porta per mano verso tutto il procedimento di vinificazione, intercalato da termini vernacolari che solo i più anziani ricordano.

Il vino e l’olio

La sèste
La sèste

«L’uva appena vendemmiata veniva posta nei “vòtene” – spiega il signor Lastella – trasportati a spalla dagli operai fino “ò pestatùre” poggiato su di una grande “tina” dove un altro operaio provvedeva a pigiarla con i piedi per ridurne il volume e periodicamente apriva uno sportellino in modo da far cadere “pàste e mùste”, (vinacce vergini e mosto) nella tina. Una volta colma, il tutto veniva trasferito sul “carràte”, capace contenitore montato sul traino. Chi non lo possedeva, versava il prodotto in un’altra “tina” oppure in alti “fùste” già posizionati sul traino. Per raccogliere fino all’ultimo acino si usava la “sèste”, attrezzo oggi introvabile. Si tratta di una piccola pala, maneggevole e leggera, ottenuta da un unico pezzo di legno.

Dopodiché il mezzo di locomozione si si incamminava verso la cantina. Qui il composto passava nello “sbaddatùre”, gigantesco recipiente capiente il doppio di una normale “tina”, dove avveniva la fermentazione. Circa ogni 12 ore bisognava “dà u pète”, ossia provvedere alla rimescolatura. Trascorso il tempo necessario, mosto e vinacce erano versati nella pressa manuale, la “furàte”, cioè il torchio. E finalmente si otteneva il vino che finiva nelle botti. Una catena di montaggio per la quale servivano persone forti, svelte e capaci. I piccoli agricoltori facevano il vino per conto proprio, in spazi allestiti per l’occasione».

Tra settembre ed ottobre il sentore inebriante del mosto pervadeva ogni angolo della città, compreso sciami di moscerini attratti dalla sua dolcezza.

Novembre procedeva freddoloso e intabarrato verso dicembre, e il contadino coratino, fino a gennaio si apprestava a rinnovare il rito di un nuovo raccolto che dava vita a quel sontuoso condimento prodotto dalla cultivar “coratina”.

Una parte del “regno” del signor Lastella è lussureggiante di templi naturali, con alte colonne secolari dalle chiome verde argento; sculture lignee contorte dallo scorrere del tempo, sotto le quali, decenni fa, lui si inginocchiava -come davanti ad un altare- per raccogliere le olive sfuggite ai panni stesi intorno ai tronchi, raccattandole una ad una dopo la brucatura manuale delle fronde, in vernacolo “sfrescià”.

«In quel periodo -racconta il signor Michele- la pausa aveva il sapore di pane e vino, del “pepidde du panètte” scavato e riempito di sapida e piccante composta di peponi, di olive, le più carnose, cotte sotto la cenere insieme alle cipolle lunghe, da noi dette “sponsali”, soffiando sulle braci cadute del fuoco acceso di primo mattino per scaldare le dita rese di pietra dal freddo».

I traini, carichi di frutti nero verdi, procedevano lenti verso i frantoi, spandendo sonori scampanellii in tutta la bassa Murgia. «Costruisco o riparo, ancora oggi, i finimenti a mano, con una particolare “morsa”», precisa Lastella.

A seconda del paese di provenienza i carri avevano un loro colore distintivo: celeste per Corato, rosso tenue per Andria. Spesso incrociavano i “terrazzàle” – traini di colore bianco decorati con disegni particolari e dalle sponde più basse rispetto a quelli agricoli – adibiti al trasporto di materiale edilizio, come tufino, breccia, sabbia, calce, o di risulta dalla demolizione delle costruzioni (u sfùrde).

L’arte dell’aratura

Gli aratri
Gli aratri

Per il contadino di un tempo, non c’era sosta tra un raccolto e l’altro. Bisognava dissodare i terreni ormai spogli di frutto. Risalgono a fine ‘800, inizio ‘900 gli attrezzi agricoli in legno massiccio, in uso a Corato fino ai primi anni del secondo dopoguerra, che il signor Lastella custodisce in uno dei suoi capienti garage, allineati con cura lungo una parete.

È lieto di descriverli ad uno ad uno, affinché non se ne perda la memoria. Si tratta per lo più di aratri: alcuni posseggono all’estremità una cuspide, una specie di cuneo in metallo (ferro) simile ad una freccia, con la funzione di favorire la penetrazione nel terreno all’inizio del solco di lavorazione; altri invece sono interamente in legno, compreso il “dentale”.

Il sig. Lastella, da buon “maestro” armato di lunga bacchetta, indica i dettagli di questo e quell’oggetto come su di una lavagna, spiegandone le funzioni e sottolineando a priori che le uniche forze a muoverli erano i muscoli dell’uomo e degli animali da tiro.

Il primo nella foto in alto (indicato con il n. 1) e definito aratro a chiodo, veniva usato per dissodare gli orti (“ortalizio” in vernacolo) in quanto consentiva di scalfire la parte più superficiale del terreno e muoversi agevolmente tra i filari di verdure: broccoli, sponsali, cime di rapa, cavolfiori, ecc.

Il n. 2 e il n. 4 erano destinati ai campi “pesanti” ovvero terreni compatti e di grandi dimensioni: vigneti, oliveti, mandorleti. Ad esempio, dopo aver mietuto il grano (tra giugno e luglio) e bruciato le stoppie, bisognava incorporarne i resti e “ròmbe” la terra, ovvero dissodarla nel profondo con solchi che si inabissavano anche di 30 centimetri. Un’operazione effettuata con i “vomeri” -grandi il doppio del n. 4) e trainati da due cavalli- necessaria per predisporre il campo alla semina che doveva avvenire ad ottobre. Docet il proverbio “Pe le Sànde, mièzze rète e mièzze ‘nnànde”. Tale attrezzo non solo “tagliava” il terreno, ma ribaltava pure le zolle attraverso la lamina ricurva. Nell’avanzare lungo tutto l’appezzamento e mantenere la direzione per creare solchi ben dritti e profondi, occorreva grande maestria; altrettanto ne serviva per far girare le bestie quando si arrivava in fondo al podere.

Il n. 3, interamente in legno, serviva a “’mbrequà”, termine dialettale intraducibile. Tracciava i solchi quando si seminava a mano “a spaglio”. Il seminatore portava a tracolla un sacco colmo di sementi. Con ampi e sapienti gesti lanciava una manciata di grano “a scìtte”, affinchè cadesse uniformemente nei solchi di destra e sinistra. Ogni solco distava tre passi dall’altro. Dopo la semina sul terreno veniva passato l’aratro per coprire i chicchi, infine l’erpice per uniformarlo. L’erpice veniva riutilizzato a marzo per sradicare “la pengìme”, un’erba infestante.

Il n. 5 è il bilancino del vomero, chiamato in dialetto “valanzòne”, al di sotto del quale pendono altri due bilancini più piccoli a cui venivano agganciati gli animali da traino: coppie di muli, buoi o cavalli. Era usato per tenere unita la pariglia.

Il n. 6) è “ù sciùvue”, il giogo, una barra trasversale sagomata che veniva poggiata sul retro del collo delle bestie da tiro, per lo più buoi, e consentiva di scaricare, attraverso il tronco dell’animale, la forza di trazione esercitata dalle zampe.

Il n. 7) è un attrezzo dal nome bizzarro: “arecchiòne”, una sorta di antesignano del cric delle attuali automobili, da cui è stato preso a modello. Serviva a stringere le corde (làzze) allo scopo di bloccare i cumuli di paglia, spighe di grano, o frasche d’ulivo che, sistemati sui tràini, sporgevano in altezza ben oltre le sponde laterali, occupando anche la zona in cui avrebbe dovuto trovare posto il conducente. Una volta assicurato il carico, “ù arecchiòne” veniva posto sulla sommità della catasta e coperto con un sacco imbottito di paglia su cui sedeva il trainiere consentendogli di guidare agevolmente, anche dall’alto, il mezzo di locomozione.

domenica 28 Gennaio 2024

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carluccio
carluccio
3 mesi fa

h avuto l’onore di conoscerlo personalmente, quella che si dice una brava persona, di una cultura immensa e di una umiltà commovente. condoglianze sincere a tutta la sua famiglia.

Vitantonio junior
Vitantonio junior
3 mesi fa

Grazie a tutti per la vicinanza e la presenza in questi giorni tristi.
I Vostri gesti sono la conferma dell’onestà, generosità e PASSIONE
di Michele manifestate durante la sua vita.
Vi ringraziamo infinitamente e confidiamo nelle Vostre preghiere.
famiglia Lastella

Aldo lotito
Aldo lotito
3 mesi fa

“Ciao mba mche’ ”
Era questo il modo di salutarti, quando capitava di vederti nel tuo garage, tu rispondevi sempre con un saluto cordiale, attento, dolce e forte allo stesso tempo, stare qualche minuto lì con te è sempre stato piacevole, non mi hai mai dato l’impressione di avere fretta o di essere arrivato in un momento inopportuno, il tuo sguardo non perdeva mai di vista il mio e nello stringerti la mano, ho sempre provato la sensazione e la certezza di avere di fronte una persona buona, seria ed autentica della quale ci si poteva fidare in tutto e per tutto.
Ciao mba mche’