Pagine di storia

Cataldo Doria, il muratore coratino prima vittima della “giustizia fascista”

Pasquale Tandoi
Cataldo Doria
Fu condannato per aver gridato all'indirizzo di Mussolini la frase: "Li mortacci sua! Sto puzzolente, ancora non l'ha ammazzato nessuno!". Morì in un campo di concentramento
4 commenti 1342

Il 25 novembre 1926, con la legge del Ministro di Grazia e Giustizia Rocco, venne istituito il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato fascista. Aveva lo scopo di stroncare ogni forma dì opposizione al regime di Mussolini. Era una delle varie leggi “fascistissime” che avevano dato vita alla dittatura. La prima vittima della “giustizia fascista” fu il coratino Cataldo Doria (o D’Oria), di Nunzio e Rosa Ardito, nato il 13-06-1896. Si era trasferito nel 1925 a Roma a lavorare come muratore, vista la grande richiesta di manodopera nell’edilizia. Era un povero manovale, un borgataro pure lui nel quartiere di Primavalle. Alloggiava nel dormitorio 196. Una mattina, mentre era al lavoro su un cantiere, durante uno scambio di opinioni con altri muratori, gridò all’indirizzo di Mussolini la frase: “Li mortacci sua! Sto puzzolente, ancora non l’ha ammazzato nessuno!”. Si riferiva al fallito attentato di Lucetti al duce, come già raccontato in altra pubblicazione. Qualcuno fece la spia ed il povero Cataldo, insieme ad un altro compagno di lavoro, il 17 settembre 1926 venne arrestato. Dopo alcuni mesi di carcere, in attesa del processo, Cataldo Doria scrisse al procuratore del re questa lettera molto sgrammaticata ma struggente:

«Sono in putato per ofesa al Duce ma chreda pure che sono innocente…Perciò lo ricomando di farmi cuesto piacere di volermi concedere la libertà provvisoria perché è tanto tempo che sto cua dentro e ancora non si sa gnente della Causa, invece che avrei tanto bisogno di lavoro esendo forestiero e ciò la molie ammalata senza nessuno che ie da un aiuto»

Ciò che merita di essere sottolineato è che l’imprecazione contro Mussolini “puzzone” può essere considerata “storica” non tanto per il suo contenuto ma da un punto di vista cronologico. La sentenza contro il coratino Cataldo Doria venne emanata il 1° febbraio 1927, appena sessantacinque giorni dopo la promulgazione della famigerata legge, rappresentò in assoluto la prima condanna del Tribunale Speciale. Assieme all’operaio forlivese Giuseppe Piva, Cataldo fu il primo imputato italiano condannato direttamente dal Tribunale Speciale senza una previa fase istruttoria.

Lo scrittore Antonio Scurati mette in contrasto, con una certa ironia, la solennità dell’evento con la pochezza del reato commesso da Cataldo.

Arrivò il giorno dell’udienza. “Dopo aver atteso per ore nei sotterranei del Palazzo di Giustizia tra pareti coperte di scritte intimidatorie (Morte ai traditori! Le camicie nere vi daranno piombo!), attraverso una scaletta angusta i due imputati incatenati sono stati condotti in aula e rinserrati in un gabbione con le inferriate ad alabarda. All’apparire della corte, il picchetto della Milizia presenta le armi con clangore di guerra. L’allocuzione dell’avvocato generale militare, Enea Noseda, risuona subito gonfia di retorica celebrativa e adulatoria “Consentite che… io renda omaggio… all’opera dell’Uomo che Dio ci ha destinato e che riassume in Sé tutti i caratteri della genialità italica…” Non gli fu da meno il presidente della Corte, il generale Sanna, con il petto ricoperto di medaglie: “Animati da una profonda e sicura disciplina, compiremo con opera energica e assidua, fino all’estremo limite, il nostro dovere di tutela dell’integrità dello Stato…”. Ma questa solennità, retorica e austera, sfociò nell’umorismo vista “la pochezza dei presunti attentatori alla sicurezza dello Stato”.

Il regime correva dei pericoli perché il nostro Cataldo aveva dato del “fetente” a Mussolini.

Gli imputati erano due poveracci, semianalfabeti, incapaci loro di difendersi con una frase formulata in un italiano corretto, dalla gabbia di animali miti e inoffensivi, assistono, timidi e senza dir: una parola, al rito celebrato contro di loro da alti ufficiali severi per mezzo di parole grevi di significato a loro ignoti”. I due si proclamarono innocenti, vittime della malignità di un compagno di cantiere da poco licenziato ed entrato per questo nella Milizia.

L’avvocato difensore Annibale Angelucci si appellò alla clemenza della corte. L’udienza fu breve. I giudici ebbero l’unico faticoso intento di evitare che fosse ripetuta in aula quella parola insolente rivolta al duce: “puzzolente”. La Corte rientrò dopo meno di un’ora. “Il generale Sanna, gonfiando il petto medagliato, in un silenzio definito “religioso” dal quotidiano del Partito fascista, pronuncia la sentenza con questa motivazione: apologia di attentato ed offese a Mussolini”. Il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato lo condannò a mesi 9 di reclusione, anni uno di vigilanza speciale della P.S. e cinquecento lire di multa.

In quel giorno “storico” della giustizia fascista iniziò ufficialmente la repressione del dissenso. Anche se quella prima volta andò in onda una versione da tragicommedia.

Scontata la pena, Cataldo dopo quell’episodio fu sempre tenuto d’occhio, divenne sorvegliato da parte della polizia politica. Era ormai un “sovversivo”. Il suo calvario prosegui per diciotto anni. La polizia riferiva continuamente di tutti i suoi spostamenti, dei suoi domicili e di tutte le imprese edili presso cui lavorava. Sapeva tutto di lui, persino che durante la Grande Guerra si era dato disertore e che, in seguito, nel 1919, era stato amnistiato dal Tribunale di Guerra.

Il muratore coratino, però, continuò, insieme ad altri compaesani, a coltivare sentimenti antifascisti. In una informativa della polizia del febbraio 1935 veniva considerato un pregiudicato antifascista. “Politicamente risulta che il Doria ha sempre professato idee sovversive, non ha dato prova alcuna di ravvedimento”. Non siamo in grado di affermare se, dopo l’8 settembre, partecipò alla lotta clandestina contro i nazifascisti. L’ultima informativa della polizia del 22 novembre 1943 riferisce di un “Cataldo Doria che non ha dato luogo a particolari rilievi con la sua condotta in genere”. Ma era già schedato come “sovversivo”, per cui, un mese dopo, il 19 dicembre, Cataldo fu arrestato dagli agenti di Polizia del Commissariato zona “Trionfale”.

Erano iniziate le retate da parte dei fascisti per eliminare pericolosi oppositori ma anche per compiacere i camerati tedeschi nell’invio di manodopera in Germania. Il giorno seguente fu trasferito in carcere, forse a Regina Coeli, dove venne interrogato dai funzionari dell’Ufficio Politico della Questura. Nessuno può dire cosa successe nei giorni successivi, se fu torturato e quali furono in dettaglio le accuse nei suoi confronti.

Il 4 gennaio 1944 ritroviamo Cataldo Doria su un treno in Viaggio verso il mondo degli orrori.

Alle 20:40, con un fischio prolungato, si mise in movimento, dalla stazione romana di Tiburtina, il “treno degli italiani”, carico di 300 uomini, giovani e anziani, che ‘il ministero dell’Interno della Repubblica Sociale, solerte e prono all’alleato tedesco, inviò in Germania per liberarsi di presenze indesiderate. Su quel treno c’erano anche 14 pugliesi – due di loro riuscirono a fuggire – che come gli altri erano stati rastrellati in giro per Roma dai vari commissariati che li avevano catturati per attività sovversive. C’erano comunisti, socialisti, anarchici e anche 13 ebrei arrestati nel ghetto il 16 ottobre 1943”.

Tra quei disperati, due coratini: Cataldo Doria e Antonio Cialdella.

Il treno, che raccoglieva prigionieri politici, renitenti alla leva, “disertori”, soldati fermati sul fronte di Cassino, era controllato da poliziotti italiani nel lungo percorso per risalire la penisola verso il Brennero. Il treno effettuò una sosta prima a San Giovanni in Persiceto (nei pressi di Bologna) e poi al valico con l’Austria. Frano gli unici momenti per tentare la fuga, anche perché i controlli dei poliziotti italiani non erano così rigidi e spietati come quelli dei tedeschi. Parecchi prigionieri riuscirono a far perdere le loro tracce. Ma furono 256 quelli che vennero consegnati alla fine del viaggio in mani naziste.

“Arrivammo alle 7 di sera a Dachau presso Monaco di Baviera e, incolonnati, con un suolo gelato, dovemmo fare ancora una marcia di otto chilometri. Tre giorni di sosta, alloggiati nel salone dei bagni, dove ci si sdraiava per terra, ma non ci si poteva neppure distendere. La sera prima i guardiani cercarono di terrorizzarci con urli e minacce, chiamandoci ladri e sporchi, e minacciandoci di farci passare la notte, nudi, nel cortile esterno. Schiaffi, calci, scudisciate per un nonnulla”.

Era il 13 gennaio del 1944. Da Dachau i 256 italiani furono trasportati a Mauthausen, un campo di concentramento che pur non essendo ufficialmente un campo di sterminio ma solo di lavoro, è considerato uno dei peggiori tra i lager nazisti. Cataldo ebbe il numero di matricola 42072 e fu classificato nella categoria “deportato politico”.

Dei circa 200mila prigionieri che vi furono internati, ne morirono circa 150mila: di fame, di freddo, per le violente punizioni o semplicemente uccisi perché ormai inabili al lavoro. Molti di questi ultimi non venivano uccisi a Mauthausen, ma trasferiti al solo scopo di essere “gasati” e poi bruciati nel forno crematorio nel vicino castello di Hartheim. Era un bellissimo edificio barocco che fino al 1939 era stato ‘un ricovero per bambini handicappati gestito dalle suore.

Poi fu trasformato dalle SS nel laboratorio dell’Operazione eutanasia. Per un paio d’anni ad Hartheim e in altri cinque centri sparsi per il Reich gli handicappati fisici e psichici tedeschi, esseri “indegni di vivere’, furono soppressi, Con quei 30mila untermenschen (sottouomini) fu sperimentata la soluzione finale che sarebbe stata applicata dal 1942 agli ebrei d’Europa. Poi la camera a gas e il crematorio furono usati per “smaltire le eccedenze” dei campi di lavoro vicini, in primis di Mauthausen.

Cataldo Doria mori a Mauthausen il 19 aprile del 1945. Roma era stata liberata da quasi un anno. Al quartiere di Primavalle aveva lasciato la moglie, Maria Di Bartolomeo, e cinque figli (due maschi e tre femmine) di cui due piccolissimi. La moglie morì dopo pochi anni e i figli furono affidati a un orfanotrofio. Antonio Cialdella, classe 1900, finì gasato ad Hartheim il 27 settembre 1944.

martedì 25 Aprile 2023

Notifiche
Notifica di
guest
4 Commenti
Vecchi
Nuovi Più votati
Inline Feedbacks
Vedi tutti i commenti
franco
franco
1 anno fa

chissà se qualcuno leggendo queste righe avrà ancora dubbi sul ruolo “sociale” che ebbe chi li mando a morte…..

Pier Luigi
Pier Luigi
1 anno fa

Bisognerebbe intitolare vie cittadine ai nostri concittadini vittime di totalitarismi (di ogni colore), rimuovendo obbrobri di vie come via Lega Lombarda, via Lombroso o anche via La Marmora (che, nella lotta al brigantaggio nel Sud Italia, causò la morte di tante nostre donne e bambini innocenti).

WalterPaolo83
WalterPaolo83
1 anno fa
Rispondi a  Pier Luigi

Per non parlare di quella vergogna di piazza almirante. Come è possibile avere ancora una piazza intitolata ad chi ha sottoscritto le leggi razziali?!

Luigi C
Luigi C
1 anno fa

Grazie per questo articolo ricco, triste e toccante allo stesso tempo, le cui parole ancora oggi fanno rabbrividire, in memoria di due nostri compaesani.