Mést Vengìenze, l'artigiano delle biciclette
Mést Vengìenze, l'artigiano delle biciclette
Da Lo Stradone

Mést Vengìenze, l’artigiano delle biciclette

Giuseppe Cantatore
Giuseppe Cantatore
Vincenzo Zaza, da tutti conosciuto come "méste Vengìenze" il noleggiatore, è un'istituzione discreta che ha servito tre generazioni. Difficile ci sia qualche coratino che non sia mai passato da lui. E oggi, a quasi 83 anni, continua ogni giorno ad alzare la serranda della sua officina
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Riproponiamo su CoratoLive.it gli articoli “senza tempo” pubblicati nei mesi scorsi su Lo Stradone. Un modo per avvicinare i lettori del web agli approfondimenti svolti sul cartaceo. Oggi è la volta dell’intervista a Mést Vengìenze, al secolo Vincenzo Zaza, artigiano che da oltre sessant’anni ripara biciclette nella sua officina di via Dante. Per abbonarsi a Lo Stradone è possibile mandare una email all’indirizzo info@lostradone.it oppure chiamare il numero 080.8983954.

Se non fosse per capelli e baffi del “maestro”, divenuti ormai canuti, entrare nell’officina all’angolo tra via Dante e via Caracciolo darebbe l’esatta percezione del tempo che non scorre. Chi oggi varca quella soglia da adulto, può respirare lo stesso odore di grasso e pneumatici che avvertiva da bambino e osservare il medesimo “caos ordinato” di cerchi e camere d’aria appese al muro. Anche sul marciapiede davanti all’ingresso, annerito dal lavoro e consumato dalla fatica, c’è sempre lo stesso uomo, chino sullo sgabello da quasi sessant’anni.

Lui si chiama Vincenzo Zaza, ma tutti lo conoscono come méste Vengìenze il noleggiatore. Classe 1940, a quasi 83 anni (li compirà a gennaio) continua ogni giorno ad alzare la serranda della sua officina. Un luogo in cui non ci sono cambi elettronici o telai in carbonio, ma una manualità e un saper fare che hanno radici profonde.

Méste Vengìenze è un’istituzione discreta che con il suo lavoro ha servito tre generazioni. Difficile ci sia qualche coratino che non sia mai passato da lui. Una foratura, un freno da stringere, una mountain bike da acquistare: il luogo in cui andare era sempre quello, quasi fosse una tappa obbligata prima di spiccare il volo in sella alla propria bicicletta appena rimessa a nuovo. A farci caso, Vincenzo è in quell’officina da così tanto tempo che, andando indietro negli anni, appare difficile capire se sia stato lui a scegliere questo mestiere oppure il contrario.

«Ho iniziato facendo l’apprendista da méste Ciccie u Làzzere (Lazzaro è il cognome, ndr)» ci racconta. «Aveva un’officina con sette operai in una piccola suppenna di fronte all’ospedale vecchio, vicino alla chiesa dei Cappuccini. Mia madre non voleva che mi intrattenessi per strada e allora mi ha mandato lì a lavorare sin dalla terza elementare. È stato davvero un grande maestro, non posso dimenticarlo. Ricordo che amava la caccia e, un giorno in cui non si lavorava, ci portò in sette sul suo sidecar in contrada Femmina morta. Sono stato lì fino a 16 anni, poi sono passato a lavorare con méste Péppe Labianca, nei pressi di viale Diaz. Guadagnavo 1.500 lire alla settimana».

Vincenzo è un uomo dai modi spiccioli e diretti, talvolta anche sbrigativi. Non uno che si perde in chiacchiere, insomma. Ma parlare del suo lavoro gli fa aprire il cuore e “sciogliere” la lingua.

«Nel 1963, a 23 anni, ho poi aperto la mia prima officina in una suppenna di via Ettore Carafa, alle spalle di dove mi trovo adesso. Ci sono rimasto solo un paio d’anni perché il posto era davvero troppo piccolo. Quindi mi sono trasferito per un altro anno in un locale sulla stessa strada. Nel 1966 è invece nata la mia attuale officina. Ho comprato i locali, poi ho fatto costruire una mezzana. Per impastare il materiale edile per realizzare i lavori abbiamo utilizzato l’acqua della cisterna che ancora oggi si trova proprio sotto il pavimento. Quello è stato un anno importante: nello stesso periodo io e mia moglie ci siamo sposati e siamo partiti in viaggio di nozze. Girammo l’Italia – Roma, Milano, Torino, Napoli – a bordo di una Fiat 600 che ho verniciato io».

Com’era Corato negli anni in cui hai iniziato a lavorare?
«Era una città molto più seria e, nello stesso tempo, più semplice. La gente era più coscienziosa. Altri tempi».

Riparavi biciclette, ciclomotori e cos’altro?

«Sono nato con le bici, ma all’inizio lavoravo molto più con moto e ciclomotori che erano più numerosi. Riparavo e vendevo anche tante Vespe, grazie al fatto che il concessionario Piaggio méste Péppe Mastrototaro, mi concesse di tenere l’insegna dell’azienda. Diciamo che mi adeguavo al mercato. Ma non facevo solo questo. Mi capitava anche di modificare le moto di grossa cilindrata per coloro che amavano sfrecciare sulle strade. Spesso capitava di fare una modifica a un cliente e poi di veder arrivare il giorno dopo qualche suo amico per chiedermi una modifica che rendesse la sua moto ancora più veloce».

«Per molto tempo, negli anni Ottanta e Novanta – continua Vincenzo – mi sono occupato anche di sistemare i motori delle guardie campestri, la cui sede all’epoca era vicina alla mia officina. Ogni giorno le moto delle guardie si ritiravano con problemi meccanici o forature e io dovevo ripararle entro la serata perché al mattino dopo dovevano tornare in servizio. Si lavorava anche fino a mezzanotte, oltre che il sabato e la domenica, con il caldo e il freddo, il sole e la pioggia».

Poi è di nuovo esploso il periodo delle biciclette. Per anni da te c’era la coda anche solo per gonfiare una ruota.

«C’era sempre una folla di clienti, mentre sul muro dell’officina e anche su quello di fronte erano accatastate tantissime bici. Ne ho vendute e riparate a migliaia. Tant’è che nel 2000 ho lasciato definitivamente i motori e mi sono occupato solo di biciclette».

Delle “due ruote” a pedali hai vissuto le diverse epoche con i relativi cambiamenti.

«Le bici sono cambiate tantissimo nel tempo. Prima erano concepite non per sport o divertimento, ma solo come mezzo di trasporto per il lavoro o per altre necessità. Non erano accessoriate con campanelli, strisce catarifrangenti e fanali, ma avevano un portabagagli molto grande perché in tanti la utilizzavano soprattutto per andare in campagna. Erano biciclette molto solide, l’acciaio era acciaio. Da Lazzaro le costruivamo anche: prendevamo i tubolari, li saldavamo e poi li verniciavamo. Quelle più recenti hanno invece una vita molto più breve e dopo un paio d’anni sono da già sistemare. Lo stesso vale per gli ingranaggi. Le cose sono cambiate da quando è iniziato ad arrivare materiale dalla Cina. Tante delle bici che riparo ancora oggi hanno problemi al mozzo centrale che si rovina facilmente».

Nel tuo lungo lavoro non ti hanno fermato neppure i problemi di salute.

«Stando sempre chino sulle bici da riparare, la schiena mi ha tormentato per tanto tempo. Ci sono stati diversi anni in cui ho avuto dolori lancinanti e ho portato anche il busto. Mi sono fatto visitare da molti medici e sono arrivato anche alla soglia dell’intervento chirurgico. Ho avuto anche problemi al ginocchio e mi hanno impiantato una valvola al cuore. Ma ogni volta in cui entravo in officina mi mettevo a lavorare non pensavo più al dolore».

Méste Vengìenze è andato ufficialmente in pensione all’inizio degli anni 2000, dopo 40 anni di contributi. Ma ha comunque continuato a lavorare. Che significa per te andare in officina ancora oggi a quasi 83 anni?

«Per me è una liberazione! – dice sorridendo – Non sono un tipo casalingo e lavorare per me è un divertimento. È bellissimo stare in mezzo alle persone, specialmente adesso che ho qualche anno in più. Poi in tanti mi ripetono che non devo andare definitivamente in pensione, inclusi i dottori. “Se smetti di andare in officina, ti rimangono tre mesi di vita” mi dicono scherzando, ma non troppo. La mia famiglia invece, soprattutto i miei figli (un maresciallo dei carabinieri che vive in Calabria e una ragioniera commercialista che lavora a Corato), insistono perché finisca di lavorare. Ma io non ne ho alcuna intenzione: in pensione ci andrò solo quando mi chiamerà il Signore. I clienti mi vogliono bene» – dice mentre gli scappa una lacrima – ma poi basta che mi paghino! – aggiunge riprendendo la sua vena ironica.

Eppure qualcuno che non ti ha voluto bene c’è stato.

«In effetti in questi anni ho subìto diversi furti. Mi ricordo di una persona che entrò in negozio mentre ero impegnato con altri clienti e, approfittando della confusione, portò via una bicicletta nuova esposta in vetrina. Oppure un altro a cui ho noleggiato una bici per una ventina di giorni e che poi non me l’ha più restituita. Ma ci sono stati tanti altri casi simili».

Hai fatto tanto a livello professionale. Ma, in questi anni, hai costruito qualcosa anche dal punto di vista emotivo e delle relazioni personali.

«Nel tempo si sono creati anche rapporti molto particolari con i clienti. A uno di loro, una persona speciale, ho fatto anche battezzare mia figlia. Un altro, invece, mi ha invece confessato di aver trovato la fidanzata in una delle tante attese davanti alla mia officina. Negli ultimi tempi la clientela si è ovviamente assottigliata e sono rimasti solo i più affezionati. La cosa bella è che ora da me vengono i nipoti dei miei primi clienti: sono arrivato a servire la terza generazione».

Hai mai pensato di insegnare il lavoro a qualcuno? Magari a qualche apprendista con la tua stessa passione che potesse far continuare a vivere la tua officina?

«Ho avuti tanti ragazzi che venivano da me in estate per imparare, ma poi andavano via in inverno perché il lavoro diminuiva molto. Alla fine, però, nessuno ha scelto questa strada perché si tratta di un mestiere povero».

È un mestiere destinato a scomparire?

«A livello artigianale, come lo faccio io, certamente sì. Ora c’è tantissima tecnologia, è possibile anche acquistare pezzi di ricambio da altre parti e molti fanno da soli. Poi c’è tanta gente che si è messa a fare questo lavoro senza però averlo imparato davvero. A volte i clienti mi portano delle biciclette sulle quali vedo dei lavori davvero fatti male. Capita di sentirmi dire: “méste Vengì, come faremo quando non lavorerai più? Non ci sono altre persone che conoscono il mestiere come te”. Da parte mia, sono orgoglioso di aver fatto tutto quello che ho fatto. Grazie al lavoro ho comprato casa e ho costruito una famiglia. Sono stracontento. – dice commuovendosi ancora – Per me questo mestiere è la vita».

domenica 8 Gennaio 2023

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Filippo Piccolomo
Filippo Piccolomo
1 anno fa

Mest Cicc ” u lazzare ” di cognome faceva Bucci, aveva l’officina in piazza Corsica ed era il fratello di un altro artigiano della bici anche lui mest Vincienz, con officina in piazza Ospedale, luogo della mia infanzia ed adolescenza, grande amico di mio padre e dove io ho imparato, osservando, a riparare forature a registrare i freni ed altro.

antonio musci
Antonio51
1 anno fa

Tutti ci auguriamo che possa continuare a lavorare per altri cento anni, è una persona educata corretta e precisa.

M.C.
M.C.
1 anno fa

E ora che si goda la meritata pensione..e lasci la strada libera..da decenni sempre occupata

Ultima modifica 1 anno fa da M.C.
Neil
Neil
1 anno fa

Un grande,ha brevettato il cambio sui comandi.
Copiato poi da Shimano…

Insomma a Corato potevamo avere un’altro
Ernesto Colnago…

carluccio
carluccio
1 anno fa

l’artigianato, una eccellenza italiana che si è volutamente fatta scomparire.
di certo il lavoro avrebbe tenuto occupati tanti giovani e giovinastri che adesso, con la scuola obbligatoria fino a quasi 18 anni, molto spesso frequentata di malavoglia o solo per obbligo, si ritrovano ignoranti, sfaticati e poveri . di tutto, non solo di soldi.

Pier Luigi
Pier Luigi
1 anno fa

A Corato il Maestro è un’istituzione.