Cultura

“Pietre del Sacro monte”, la leggenda torna nei ranghi della storia

Giuseppe Gallo
Le immagini delle "Pietre del sacro Monte"
Abbiamo fatto luce sulla storia recente dei gattoni e dei mensoloni di Palazzo ducale e della chiesa del sacro Monte, crollati nel 1922 e oggi pronti a vivere una seconda vita nella rinnovata piazza Di Vagno
1 commento 825

C'è una “storia nella storia”, forse non troppo nota, che riaffiora dai meandri dello scorso secolo ed è strettamente legata alla imminente ricostruzione di piazza Di Vagno. Parliamo delle cosiddette “Pietre del sacro Monte”, i mensoloni dell'omonima chiesa e del seicentesco palazzo ducale sopravvissuti ai crolli del 1922, quando buona parte del patrimonio architettonico di Corato andò perduto a causa del dissesto idrogeologico dovuto all'innalzamento delle falde freatiche.

I mensoloni, insieme a gattoni e lastroni di marmo, simboli del più grande disastro urbanistico che abbia mai colpito la città, furono in seguito raccolti per poi finire accatastati nel vecchio mattatoio di via Trani, lontano dalla memoria ancora ferita dei coratini e alla mercé di vandali e sciacalli, fino a essere trasportati, in tempi più recenti, nell'ex carcere.

Da quel momento, divennero quasi leggenda: in molti parlavano della loro esistenza, ma quasi nessuno sapeva dove fossero, avvolgendoli di quell'alone di mistero e di oblio che li trascinava lentamente verso un grigio dimenticatoio.

A fare luce sulla loro storia recente è Angela Paganelli, ex docente del “Tannoia” e per lungo tempo fiera custode di questi elementi, oggi fortunatamente recuperati e in esposizione permanente presso il museo della Città e del territorio. Le precisazioni sarebbero dovute anche all'inesattezza storica secondo la quale i preziosi beni culturali sarebbero stati stivati nella chiesa dei Cappuccini. 

«Era il 1996 – racconta Angela Paganelli – ed era in corso una disinfestazione della zona in cui sorgono la scuola e il museo. Affacciandomi all'ingresso dell'ex carcere abbandonato, scorsi dei bassorilievi d'età tardo-rinascimentale».

Un vuoto di oltre settant'anni colmato in un istante fulmineo e con uno sguardo di sorpresa, la leggenda che fa di nuovo spazio alla storia. Il 17 maggio 1996, don Luca Masciavè scrisse all'allora sindaco Di Gennaro affinché l'amministrazione affidasse “le pietre” all'Arciconfraternita del Monte di Pietà.

L'intento del religioso era quello di “porle in mostra al pubblico” nella sede di piazza Venezuela, come recita la missiva battuta a macchina circa vent'anni fa. In quella stessa primavera, il materiale fu sottoposto a una rigorosa schedatura.

Ottenuto il "nulla osta" del Comune, l'anno seguente i due architetti Anna Acquafredda e Vincenzo Loiodice elaborarono a titolo gratuito il progetto “Il giardino delle memorie”, in linea con i desideri di don Luca. Il 21 agosto 1999, quest'ultimo si rivolse alla Commissione diocesana per l'arte sacra, chiedendone il beneplacito, che giunse puntuale pochi mesi dopo, il 26 novembre.

Ad ostacolarne il compimento fu però la mancanza di spazio denunciata dallo stesso sacerdote, che il 30 agosto 2004 affidò nuovamente i reperti all'amministrazione, “affinché possa farne il nucleo essenziale di un eventuale Museo della Storia della Città o esporlo, secondo i più aggiornati criteri museografici, proprio in quella parte della città da cui storicamente proviene”.

È una lettera dal sapore doppiamente profetico quella inviata al sindaco Perrone e leggibile nella gallery. Il vaticinio di don Luca starebbe oggi per compiersi interamente. Dopo il già citato allestimento di un'apposita sala espositiva presso il Museo, proprio a cura della professoressa Paganelli, la parte rimanente del materiale è pronta a vivere una nuova vita, a rilucere esattamente laddove si ergeva una volta in tutto il suo splendore.

Nel progetto di riqualificazione di piazza Di Vagno è infatti prevista la presenza di una quinta, di un finto palazzo con le medesime sembianze della facciata dell'antico palazzo ducale, da adibire a spazio espositivo pronto ad ospitare “r pète du monde”.

Un cerchio che si chiude, una storia dal lieto fine se, a dispetto dei decenni trascorsi, restiamo orgogliosi depositari di una pregevole testimonianza della Corato del tempo che fu, fiduciosi che la centralissima piazza, con la sua rinascita, smetterà di essere teatro di incresciosi episodi di violenza.

lunedì 9 Marzo 2015

(modifica il 25 Luglio 2022, 13:32)

Notifiche
Notifica di
guest
1 Commento
Vecchi
Nuovi Più votati
Inline Feedbacks
Vedi tutti i commenti
fiorenzospina
fiorenzospina
9 anni fa

“un cerchio che ancora si deve chiudere” finquando l’operra non è terminata… mai dire mai (vedi largo abbazia)