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«Non ricostruiamo le mura». La voce di un coratino racconta la sua città «accogliente per natura»

La Redazione
L'abitazione dei rifugiati presa a sassate
«Oggi, da Corato si va quasi soltanto via. Ma poi un giorno succede che qualcuno arriva, da lontano. Di passaggio»
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«Pigliammo la via di Corato, piccola città leggiadramente edificata in pietra calcarea bianca e giallognola, tutta circondata da vigne ed oliveti. Non ci era accaduto quasi mai di vedere in Puglia un paese dall'aspetto così ameno e pulito." (F. Gregorovius, Apulische Landschaften».

Il giovane coratino Leonardo Piccione parte da questa citazione di "Paesaggi di Puglia" (1877) per esprimere il proprio commento alla triste vicenda di cui il giovane B.B. è stato vittima e sperare in una città capace di essere accogliente.

«A Corato – scrive Piccione – non puoi atterrare: non ci sono aeroporti. A Corato non puoi nemmeno sbarcare: la costa dista una decina di chilometri. Per arrivare a Corato devi attraversare, devi passare dentro qualcosa. Gli ulivi, i campi di grano, le pietre, la terra arida. Che tu provenga dal mare o dalla collina, troverai comunque una via diretta per raggiungere il cuore della città. Senza svolte né manovre: il centro esatto, l’intersezione di cardo e decumano è lì, a portata di mano. Accessibile, Corato, lo è sempre stata.

Alta, ma non troppo. Interna, ma non troppo. Corato non è quasi mai meta definitiva, ma luogo di transizione verso altri orizzonti e altre vite. Un movimento continuo e talvolta impetuoso, come quello dei fiumi sotterranei su cui sorgono case e chiese.

Forse erano di passaggio anche Pietro e Paolo, diretti forse verso la più nobile Rubis o la ricca Tarenum, quando parlarono per la prima volta di Cristo a una piccola comunità pagana che adorava qualche dio dei boschi. Non dovettero avere troppi problemi, i due santi, a raggiungere le casupole dei contadini che abitavano in epoca romana le fertili terre che tale Caius Oratus (da cui Coratus, secondo la tradizione) aveva ricevuto in premio tornando vincitore dalla terza guerra punica. Non ebbero troppi problemi nemmeno i barbari, i saraceni e i normanni che, nei secoli, imposero il loro dominio sulla città. Nei brevi intervalli tra una razzia e l’altra, i coratini provavano a difendersi come potevano. Il centro diventò un dedalo medievale di archi e cunicoli; furono edificate mura e quattro torri.

Ma niente. Le vie del centro continuavano ad accogliere e ad accompagnare verso l’esterno genti di ogni dove, in un interminabile – e non privo di dolore – processo osmotico. Le torri crollavano sistematicamente sotto i colpi di soldati prestanti ed aggressivi e rimasero infine solo un simbolo nello stemma cittadino: quattro torri e un cuore, un cuore sine labe doli, senza macchia d’inganno, come la fedeltà e il coraggio che la città non perdeva occasione di provare.

Fu la volta degli Svevi, e gli ulivi argentei di Corato stregarono Federico II, stupor mundi, uno degli uomini più incredibili che abbiano calpestato questa pietra calcarea bianca e giallognola. E poi ci furono gli Angioini, e poi gli Aragonesi e poi una sfilza disordinata di feudatari e di nobili famiglie. La peste, a più riprese, e le invasioni di cavallette. Lo straordinario e al tempo stesso comunissimo caleidoscopio di eroi e briganti che colorano le pagine di storia di tanti luoghi come Corato in questo pezzetto di mondo. Ma la gente di Corato, sine labe doli, continuava nel silenzio e nell’umiltà a spremere olive, a pascolare pecore, a ricamare pasta. Gli uomini di Corato si guadagnarono con il sudore, nel tempo, la leggiadria e la tranquillità che la loro città meritava, se non altro per un evidente credito con la storia. Hanno toccato la crescita e il benessere e la bellezza del tempo di pace, quando non devi salire sulla torre con il cuore in gola per scorgere se un nemico arrembante giunge dalla via del mare. Si sono forse pure adagiati un po’, i coratini, godendosi una tranquillità che quasi sconfina nell’immobilismo. Dinamica, ma non troppo. Moderna, ma non troppo. Periferica, ma non troppo. Oggi, da Corato si va quasi soltanto via.

Ma poi un giorno succede che invece qualcuno arriva, da lontano, a Corato. Di passaggio, perché Corato non è quasi mai meta definitiva, ma luogo di transizione verso altri orizzonti e altre vite. Per alcuni giungono. Arrivano. Attraversano. E in qualche modo risvegliano un sentimento antico di autodifesa, retaggio di secoli di barricate. Perché sei qui? Perché hai la pelle di quel colore e non mi capisci quando parlo e non ti piace la mia pasta e preghi un altro Dio? Vuoi forse prenderti la mia casa e il mio raccolto e il mio lavoro? Ricostruiamo le mura. Che siano indistruttibili, fatte di giudizi, parole, gesti. Ci siamo già passati, abbiamo sofferto, non lo permetteremo di nuovo.

La gente di Corato, sine labe doli, è chiamata a provare una volta di più il proprio coraggio. Un coraggio nuovo, diverso. Più complesso di quello necessario a nascondersi nei cunicoli o a lanciare qualche pietra al nemico. Il coraggio di riconoscere che oggi, in questa città, si può anche arrivare. Non un atterraggio, non uno sbarco. Si può arrivare senza intenzioni bellicose. Si può arrivare per fuggire da qualcosa o da qualcuno, dai fatti della Storia o dagli anfratti delle storie. Si può arrivare per trovare ristoro. Si può arrivare per attraversare gli ulivi, i campi di grano, la terra arida. Per carpirne gli insegnamenti. Si può arrivare per percorrere una delle strade dritte che conducono rapidamente al cuore forte della città. E percorrerne i vicoli stretti, respirare l’odore di pulito che si fa largo tra le finestre spalancate e che finisce sempre per coprire quello di muffa e di stantio. Si può arrivare per farsi poi accompagnare verso l’esterno. Altri orizzonti e altre vite.

E’ scritto nella forma del paese. E’ scritto da sempre nella pietra calcarea bianca e giallognola. E’ scritto nei palazzi eleganti con i muri rossi e appuntiti. E’ scritto nello scorrere incessante dell’acqua nella pancia della città. E’ scritto, in fondo, nei cuori senza macchia d’inganno della gente di Corato. Alcuni cuori sono muscoli momentaneamente allo sbando: impolverati, lacerati, impauriti. Coraggiosi, ma non troppo. Allenati, ma non troppo. I muscoli fuori allenamento conoscono un vocabolario misero: colpire, scalciare, sbraitare. I muscoli bene in forma non possono rinunciare invece a muoversi, a dialogare, a correre. A farsi guide umili e silenziose di quegli altri, stanchi, in mezzo agli archi e ai cunicoli del centro, custodi di un patrimonio di vita e di cultura che non può essere svenduto. Accessibile, Corato lo è sempre stata. Chiusa, o peggio intollerante, non dovrà diventarlo mai. Non può permetterselo. Non è la sua natura».

martedì 9 Settembre 2014

(modifica il 25 Luglio 2022, 20:28)

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sother
sother
9 anni fa

Da Corato, ma non solo da Corato, si va via. Da Corato, ma non solo da Corato, spesso si passa. A Corato, ma non solo a Corato, qualche volta si ritorna. L’ amore verso la propria città e la nostalgia per il suo passato ben traspaiono nelle parole di questo lettore, non di certo giovane, dato che le profonde considerazioni si accompagnano quasi sempre ai capelli canuti. Quello che più mi ha colpito, nel tempo, è il capovolgimento del rapporto col paese, da parte della gente: da centro di interessi collettivi (motivo per il quale ogni comunità è nata e alla quale ognuno ha dato volentieri e con energia il proprio contributo) a comodo ricettacolo per i propri bisogni e le proprie esigenze.

G.
G.
9 anni fa

Stilisticamente è scritto bene questo articolo, bravo giovane coratino