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New York, 11 settembre 2001. C’era anche un coratino appena fuori l’inferno di Manhattan

La Redazione
Tremila morti, tanti sopravvissuti. Tra loro, anche il coratino Aldo Loiodice. «Sono felice perché sono qui a raccontarlo»
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E’ innegabilmente la data che ha cambiato la storia moderna.
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rnSono passati pochi giorni dall’11 settembre 2011, decennale del duplice attentato alle torri gemelle, ma anche dell’areo che si è schiantato sul Pentagono e di quello caduto in Pennsylvania.

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Tremila morti, tanti testimoni che hanno vissuto quei terribili momenti. Tra loro, anche il coratino Aldo Loiodice che nel momento in cui i velivoli hanno colpito le torri si trovava proprio a Manhattan, a poche centinaia di metri.

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«Nel decennale dalla strage delle twin tower, ho telefonato al mio vecchio amico Aldo per mostrargli la mia solidarietà per quei terribili giorni a New York ed ho scoperto che per lui quei dieci anni non erano mai passati», ha detto il suo amico Pino Picca.

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«Ogni giorno della mia vita guardando mia figlia Juanita ringrazio Dio per avermi risparmiato quell’11 settembre e da allora cerco di parlarne il meno possibile per cercare di far decantare dentro di me le ombre di quei ricordi, sperando che si sbiadiscano», gli ha riferito Aldo Loiodice.

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«Ma questo non succede: restano sempre lì e probabilmente albergheranno con me per sempre, forse per ricordarmi quanto sia stato fortunato. Ma l’altra sera, all’inaugurazione di un centro di danza a Corato, ho conosciuto un coreografo cubano. Anche lui si trovava quel giorno a New York ed un moto, un sussulto di incredulità e di sgomento insieme ci ha travolti e i nostri sguardi hanno intravisto la ferita ancora aperta nello sguardo dell’altro ed all’unisono, come se recitassimo la stessa battuta dello stesso copione, abbiamo proferito queste parole: di quel giorno preferisco non parlare», ha detto ancora Loiodice.
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rnCosì, per ricordare quegli eventi attraverso il racconto di chi li ha vissuti sulla propria pelle, Pino Picca ha voluto riprendere un suo articolo pubblicato all’indomani dell’attentato, il 16 settembre 2001, su Barisera.

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«Ora sono felice», attacca l’articolo. «Era una bellissima giornata, stavo frequentando un corso di perfezionamento di inglese e americano commerciale in un’aula di una scuola a nord di Manhattan quel maledetto 11 settembre, quando verso le 9 qualcuno ci ha detto di salire in terrazzo.

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Appena arrivati, la scena è stata impressionante: a poco più di un chilometro in linea d’aria da noi abbiamo assistito al crollo di un intero grattacielo di 400 metri; era una delle due torri gemelle, mentre l’altra fumava ancora. Dopo qualche istante un nuovo grattacielo, molto più alto si è eretto al posto di quella torre del World Trade Center, era solo fumo e polvere, una colonna, una nube così alta e densa che ha immediatamente avvolto il centro di New York e che presto ha reso l’aria irrespirabile».

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Inizia così il racconto di Aldo Loiodice, appena sbarcato a Milano Malpensa con il primo volo dagli Stati Uniti per l’Italia, domenica 16 settembre 2001.

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«Ci hanno accolti come eroi o forse solo come superstiti per lo scampato pericolo – ha continuato Loiodice – con applausi, commozione, parenti che si abbracciavano piangendo, fotografi, giornalisti e tante hostess che elargivano sorrisi e rose, tante rose. A me è capitata una di colore giallo che conservo ancora. Il nostro era il primo volo che ripartiva dall’aeroporto JFK di New York dopo una pausa di cinque giorni. Ricorderò per sempre questa sigla: volo AZ 605 del Boeing 747 con partenza ore 6 da New York e arrivo ore 7,55 a Milano.

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Si avvertiva una forte tensione in aereo, perché si trattava dei primi voli in assoluto dall’America e il silenzio regnava a bordo. All’inizio ci guardavamo tutti con diffidenza, perché lì si parlava solo di terroristi kamikaze, ben introdotti nel tessuto sociale, ma poi è prevalso il buon senso, anche perché eravamo stanchi e pensavamo solo a tornare a casa dalle nostre famiglie.

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In aereo ho conosciuto un milanese, che aveva un ufficio al 48° piano della torre nord, pensate quel giorno arrivando nella hall del grattacielo frugandosi in tasca si accorge di aver smarrito la tessera magnetica per l’accesso alle ascensori, non potendo entrare chiede di un guardiano che lo conosceva di vista, nell’attesa del riconoscimento, sente un violentissimo botto e vede migliaia di vetri frantumarsi e cadere come lame addosso alla gente. Il manager inizia a correre verso l’esterno e come lui migliaia di persone.

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Ha corso per chilometri senza mai girarsi, fino alla west Brodway verso Washington Square, tanto che non si è nemmeno accorto che l’edificio veniva giù dietro di lui. Ricordava solo una scena: una donna correva tutta insaguinata, i medici intervenuti, non riuscendo a vedere la provenienza di quel sangue, la fanno spruzzare dai violenti getti d’acqua dei pompieri, e scoprono che la donna é illesa e che quel sangue aveva origine da altra gente presente nei grattacieli e che colava a pioggia.

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Penso di aver rimosso molto dalla mia mente, fra le cose che ricordo, le scritte in sovrimpressione che scorrevano sotto i tg della CNN (America under attack). Ed era questo che gli americani realmente pensavano, di essere stati attaccati da un nemico, e di essere sotto assedio. In molti pensavano alla ex Unione Sovietica, poi si è parlato di Saddam Ussein, poi ancora di un atto terroristico del governo libico di Geddafi, acerrimo nemico dell’America. Notizie e smentite si alternavano in continuazione, poi il Presidente Bush ha dichiarato, come maggiore indiziato il plurimiliardario sceicco Osama Bin Laden. Per curiosità noi corsisti, abbiamo cercato di avvicinarci al luogo del disastro, ma ce lo hanno impedito, sbarrandoci la strada.

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Abbiamo visto tanta gente che correva a piedi e che si accalcava sui ponti, era un fiume di persone che gridava atterrita, un esodo biblico. Di li a poco la città è stata militarizzata: passavano sulle nostre teste aerei ed elicotteri, dall’interno dei quali si catapultavano reggendosi a delle lunghe corde uomini dei reparti speciali dei marines; i mezzi blindati militari di terra hanno accerchiato la città e quelli di mare hanno sbarrato il fiume Hudson. Le auto della polizia sfrecciavano all’impazzata con le sirene spiegate, la gente correva, ma nessuno sapeva da chi e da cosa. Quello che mi ha colpito è stata la apparente felicità di tanta gente, che scampata al pericolo sembrava festeggiare con il tipico (dammi un cinque!) gesto che esorcizzava la paura, ma che celava tanta debolezza.

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Mi sembrava non di assistere ad un film, ma di essere io stesso nella pellicola di un film d’azione. Ci hanno, senza mezzi termini, obbligati a rientrare nel college nel quale alloggiavo, dove siamo rimasti per diversi giorni, perché c’era il coprifuoco e chiunque non lo rispettava lo portavano in centrale e lo interrogavano.

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Dopo poco ci siamo accorti che ci avevano anche chiuso qualsiasi canale di comunicazione con il mondo esterno: i telefoni e la rete internet erano stati bloccati. Chiunque era un sospettato e si respirava un clima di guerra, anche perché due miei colleghi di corso giapponesi, risultavano dispersi. Il corso è così stato interrotto. Prima che ciò succedesse, avevo programmato di visitare proprio le twins tower, ma poi il corso full immersion mi assorbiva troppo tempo per poter fare il turista e avevo rimandato l’appuntamento a fine corso cioè al giorno 14. La sfortuna/fortuna mi ha voluto bene – ha concluso Loiodice – ed ha scelto il numero 14 al posto del numero 11 ed è per questo che sono felice, perché sono qui a raccontarlo».

martedì 20 Settembre 2011

(modifica il 27 Luglio 2022, 1:54)

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