Partorire a Corato nel passato

Pasquale Tandoi
L’ostetricia era una branca del servizio sanitario cittadino del tutto inesistente nella prima metà dell’800. Nel Comune di...
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L’ostetricia era una branca del servizio sanitario cittadino del tutto inesistente nella prima metà dell’800. Nel Comune di Corato non c’era alcuna levatrice autorizzata, né in grado di chiedere e conseguire un “diploma”; c’erano soltanto alcune donne che avevano assunto “l’ufficio di levatrice di loro privata autorità” e che ascoltavano, di tanto in tanto, qualche suggerimento sanitario da parte del medico condotto.

Nel Settecento anche la Chiesa, partendo dal presupposto che il feto fosse dotato di anima, imponeva l’intervento di un chirurgo in caso di pericolo di vita per la partoriente, perché praticasse il cesareo al fine di consentire il battesimo al bambino: “il parroco dovrà chiamare un chirurgo; nel caso non sia possibile che vi sia almeno un barbiere o una mammana che faranno l’operazione almeno con un rasoio, tagliando la parte che il dottor fisico segnerà”.

Già con l’amministrazione statale francese (1806-1815) la secolare immagine della donna levatrice, della cosiddetta “mammana”, era stata messa in discussione ed incriminata per le sue pratiche non ortodosse. Lo Stato, più attento alla difesa della vita dei suoi cittadini, individuò nelle levatrici praticone le principali responsabili della elevata mortalità infantile e delle donne al parto.

Per questo l’istruzione delle ostetriche divenne una tappa fondamentale nel processo di controllo di “un’arte” troppo autonoma dalla scienza medica maschile. La legge sovrana del 1822 imponeva che in ogni comune “un medico o cerusico (chirurgo) fosse incaricato di accorrere, essendo chiamato, alle partorienti e nel tempo stesso tenesse in un giorno della settimana un corso di ostetricia ad un qualche numero di donne maritate o vidue”. Tale disposizione però non diede a Corato i risultati sperati. Le mammane continuarono a godere la massima stima e fiducia da parte delle donne.

La “comare levatrice”, anche se riconosciuta colpevole della morte del bambino o della stessa madre, per tanto tempo ancora fu l’unica a raccogliere le confidenze delle donne incinte e partorienti, l’unica a cui affidare i misteri del sesso, della riproduzione e della nascita.

Alla fine degli anni ’60 del 1800, sotto l’amministrazione illuminata del sindaco Giuseppe Patroni Griffi, si cercò con vari espedienti, anche con una diffida, di invogliare “le vecchie esercenti” a procurarsi l’autorizzazione, ma esse, consce della loro ignoranza e incapacità, non si presentarono “all’esperimento”. Si stabilirono anche dei premi per quelle che si fossero recate a Bari ad apprendere l’arte, ma nessuna si lasciò lusingare. Le mammane coratine erano ben nove e si chiamavano Peppa Petrone, Anna Maria Muggeo, Anna Fabbiano, Silvia Losito, Anna Di Bartolomeo, Raffaella Di Bartolomeo, Nicoletta Piccolomo, Salvatora Tarantini, Angela Lotito (ARCHIVIO DI STATO DI BARI – Fondo Prefettura. Sanità Pubblica. Serie 2, fascio n. 63.).

E allora l’Amministrazione, anche perché lo imponeva la legge, fece venire da Napoli, non essendosi trovata una da paesi più vicini, una levatrice autorizzata e consigliata “dall’Egregio Ostetrico Professor Mayer”, con lo stipendio annuo di 1.200 lire.

La vita dovette essere veramente dura per questa “forestiera”, venuta a Corato ad esercitare un’arte che richiedeva la massima fiducia ed intimità da parte delle partorienti.

Ognuno s’immagini – scrisse Patroni Griffi – quali opposizioni ebbe a sostenere quella povera Signora non appena arrivata in Corato. Il popolo minuto presso cui le vecchie esercenti avevano grandi relazioni ed impero, la osteggiò e non volle farvi ricorso nonostante il servizio fosse gratuito.

Il Sindaco cercò in tutti i modi di eliminare i pregiudizi, mise in contatto la “Signora” con le “vecchie esercenti” perché si amalgamassero gli spiriti esacerbati. Solo qualche difficoltà fu superata. Il Sindaco riteneva opportunamente che toccasse “alla classe più agiata” dare l’esempio ed essere di “guida e norma” per le classi “più povere e ignoranti”.

Dal dicembre 1896 al giugno 1911 fu levatrice condotta di Corato Puppi Antonietta, ma l’impegno di una sola levatrice non era sufficiente a soddisfare le esigenze di una popolazione che contava quarantamila abitanti. Altre due levatrici, Teresa Piccolomo e Teresa Sancesario, scrivevano al Prefetto di Bari che non era “regolare né umano il fatto che vi fosse solo una levatrice condottata la quale non era in grado di attendere con assiduità al disimpegno del suo ufficio, dato il numero stragrande di clienti privati che aveva”.

Ciò costituiva un grave danno per le puerpere povere, che restavano addirittura abbandonate il più delle volte “alle sole risorse naturali senza il sollievo di una mano esperta”. Le due levatrici chiedevano di essere affiancate alla Puppi Antonietta nell’assistenza soprattutto delle gestanti povere e senza ulteriore aggravio finanziario per il Comune, con la divisione dell’onorario della levatrice condotta in tre parti.

Il Comune, in attesa di bandire un concorso, nominò, nel dicembre 1911, come levatrici condotte le due sopra menzionate, più la signora Virginia Serafino. Nel maggio 1915 il concorso fu bandito e risultarono vincitrici Virginia Serafino e Teresa Chiriachi con lo stipendio annuo di 450 lire. La levatrice Chiriaci fu più di una volta contestata dall’autorità comunale per mancata assistenza alle donne povere.

Raccontiamo un episodio significativo per capire in quali condizioni avvenivano i parti ancora negli anni Trenta del Novecento e quale fosse la mentalità diffusa. E’ la stessa levatrice Chiriaci a parlare per discolparsi, in quanto le era stata contestata una mancata assistenza ad una gestante povera:

“ Verso le otto del mattino del 28 dicembre 1933 si presentò da me una donna che io non conosco, munita della regolare richiesta rilasciata dall’ufficio di Polizia Urbana, per assistere la gestante De Sario Maria in vico Ribatti, 7. Assicurai la donna che sarei subito andata per l’adempimento del mio dovere. Ma poco dopo, mentre mi accingevo ad uscire di casa, si presentò a me un’altra persona tutta allarmata, munita di regolare richiesta dell’ufficio di P.U., la quale mi pregò vivamente di recarmi con urgenza in via Cocò n. 4, dove la puerpera Lotito Eugenia, ammalata da vari giorni di polmonite con forti febbri, aveva abortito un feto di cinque mesi e minacciava di emorragia con pericolo imminente di vita.

In mia coscienza e a fil di logica ritenni più doveroso correre dalla Lotito, ciò che feci immediatamente, dopo, tra l’altro, aver incaricata mia figlia, anche lei ostetrica, di andare dalla De Sario nel caso in cui, durante la mia assenza, fossero tornati di nuovo a chiamarmi. Ciò che effettivamente si verificò in mia assenza, tanto che mia figlia si recò a casa della De Sario. Qui trovò la gestante che giaceva su un lettuccio situato in una stamberga lurida e nauseante ed infetta per le esalazioni pestilenziali provenienti da resti di carne equina in putrefazione, carne che il marito Gammariello Luigi teneva lì perché lo stesso esercitava il mestiere di contrabbandiere di carne equina.

Mia figlia ritenne assolutamente inadatto per lo sgravo quel tugurio e, temendo che lasciandola sgravare lì, la De Sario correva il pericolo di fatali infezioni anche per il nascituro, consigliò il Gammariello di recarsi immediatamente dal dott. Pappagallo perché questi gli rilasciasse il necessario biglietto per il ricovero della gestante in ospedale. Dall’esame ostetrico risultò poi che, pur trovandosi la donna in travaglio, questo era iniziale e il trasporto all’ospedale poteva essere effettuato senza pericolo alcuno. Alla proposta di mia figlia, il Gammariello, sentendosi come colpito nell’onor suo più sacro, disse che mai avrebbe permesso a sua moglie di partorire in ospedale e, sempre più accecato dall’ira, investì di male parole mia figlia arrivando seriamente a minacciarla.

Mia figlia ebbe paura e temendo di essere aggredita dal Gammariello se ne tornò a casa di corsa tutta sconvolta in viso. Quando vidi mia figlia la mandai in compagnia di mio marito perché denunciasse al Comando delle Guardie Municipali l’accaduto. Qui incontrò il Gammariello che riprese a proferire insulti, ma ormai mia figlia non poteva proprio più lasciare che un miserabile come il Gammmariello continuasse a pungere l’amor proprio e la dignità personale sua, tanto che, indignatissima per le ripetute offese ricevute, in pubblico ufficio lo prese a schiaffi e gli fece capire con parole adatte qual era la situazione.

Poi la giovane levatrice cominciò a riferire alla guardia Musci le parole offensive ricevute dal Gammariello e questi, per non passare dei guai, si mise a negare tutto, anzi affermò che mia figlia gli aveva chiesto un pagamento anticipato di 25 lire per assistere la moglie e che si era allontanata dopo il suo rifiuto di darle i soldi. Da un avanzo di galera mia figlia non poteva proprio pretendere una lira.”.

venerdì 22 Gennaio 2010

(modifica il 3 Febbraio 2023, 14:33)

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