21 ottobre 1860: quando i Coratini votarono l’annessione al Piemonte

Pasquale Tandoi
Dopo la spedizione dei Mille e le conquiste garibaldine, si poneva il problema della sorte dell'ex Regno delle Due Sicilie. Cavour era...
scrivi un commento 39

Dopo la spedizione dei Mille e le conquiste garibaldine, si poneva il problema della sorte dell’ex Regno delle Due Sicilie.

Cavour era evidentemente per l’immediata annessione al Regno dei Savoia; Mazzini e i democratici repubblicani erano invece fautori di un’assemblea costituente, eletta a suffragio universale, che stabilisse quale forma di governo, monarchica o repubblicana, avrebbe dovuto avere l’Italia dopo l’unità.

La borghesia meridionale si schierava sempre più apertamente per l’annessione, ritenendo che questo fosse l’unico mezzo per farla finita con le rivolte contadine che erano scoppiate in molti paesi del Sud, a cominciare da Bronte in Sicilia.

La delusione dei contadini per le mancate promesse di Garibaldi circa la distribuzione delle terre demaniali stava provocando le prime avvisaglie, i primi fuochi di quella guerra civile e sociale che insanguinò il Meridione fino al 1865 e a cui fu dato il nome di “brigantaggio”.

Lo stesso Garibaldi, che pure era di sentimenti repubblicani, non mise mai in discussione la sua lealtà verso il re e infatti a fine ottobre, nel famoso incontro a Teano, consegnò il Sud da lui liberato nelle mani di Vittorio Emanuele II.

E così, dopo che la Camera dei Deputati di Torino approvò il disegno di legge che autorizzava il governo ad accettare l’annessione senza condizioni e mediante plebiscito, furono emanati due decreti dittatoriali l’8 e il 12 ottobre con i quali si stabilivano i tempi e le modalità della votazione.

Il giorno prefissato fu il 21 ottobre 1860 e vennero chiamati a votare tutti i maschi dai 21 anni in poi che godessero dei diritti civili. Ogni cittadino avente diritto a partecipare alla consultazione popolare doveva risponder con un SI’ o con un NO alla seguente domanda: VUOLE IL POPOLO PER RE D’ITALIA UNA ED INDIVISIBILE VITTORIO EMANUELE II ED I SUOI LEGITTIMI SUCCESSORI?

A Corato la giornata del Plebiscito ebbe un carattere particolarmente solenne. La ricostruiamo attraverso la relazione scritta qualche giorno dopo dal sindaco Stanislao Quinto e che abbiamo ritrovato sbiadita e quasi illeggibile tra i documenti dell’archivio di Stato di Bari.

Alle ore 13 il sindaco, assistito dal cancelliere archiviario e seguito dai componenti del Consiglio Comunale, dal comandante della Guardia Nazionale e da tutti gli uomini della stessa, muovendo dal Palazzo di Città si diresse “in forma pubblica” verso la Chiesa Matrice per assistere ad una messa solenne e per fare benedire l’urna che doveva raccogliere i voti dei cittadini.

In chiesa era presente “tutto il reverendo Capitolo in abito corale”. Terminata la messa, il celebrante benedisse l’urna “in mezzo alla generale commozione – e qui il sindaco nella relazione si lasciò prendere la mano dalla retorica patriottica tipica di quei tempi- per un diritto che costò un mare di sangue ai Padri nostri, ed a noi esili, prigioni, condanne, confische, finalmente acquistato mercè l’opera del prode dei prodi, Giuseppe Garibaldi, da Dio prescelto ad opera sì grande, e che sarà quasi incredibile ai posteri che ci seguiranno nel cammino della libertà.

Poi tutte le autorità civili, militari e religiose, seguendo in processione una croce, fecero ritorno al Corpo di Guardia Nazionale (nei locali dell’attuale ufficio anagrafe) dove si era raccolto “un gran popolo”. Per dare a tutti la possibilità di assistere ad una operazione così importante per i destini della Patria, il sindaco diede l’ordine di uscire dal Corpo di Guardia e all’aperto “fece sistemare su un tavolo le tre casse, contenente una le schede del NO, l’altra i SI’ ai lati e in mezzo l’urna da immettere i voti”.

E finalmente, dopo tutto questo cerimoniale, ebbero inizio le operazioni di voto rispettando un ordine rigoroso: per primo votò il reverendo Capitolo, poi il sindaco e i membri del Consiglio Comunale, poi il comandante della Guardia Nazionale e i suoi uomini, indi si avvicendarono gli impiegati comunali, il giudice del circondario ed infine “il popolo che mantenne sempre un ordine lodevolissimo durante tutto il tempo della votazione che si protrasse fino a sera.
Concluse le operazioni il sindaco e tutte le autorità fecero ritorno al Palazzo di Città.

L’urna, dipinta in rosso, bianco e verde e riportante su un lato l’iscrizione” Sacro Deposito dei Voti del Popolo di Corato”, fu suggellata a cera lacca con una fettuccia bianca a croce.

Qualche giorno dopo il sindaco consegnò l’urna al Governatore della Provincia (la prefettura non era stata ancora istituita) dove avvenne lo spoglio. Non ci fu nessuna trepidazione, nessuna suspence circa i risultati del plebiscito: a Corato su circa 13000 cittadini aventi diritto al voto si presentarono in 6147 e tutti, senza eccezione alcuna, espressero il SI’ all’annessione.

Occorre fare due precisazioni su questi dati. Innanzitutto la partecipazione al voto fu sentita solo dalla metà della popolazione avente diritto, in quanto interessò in particolar modo i ceti borghesi e i lavoratori della città in genere; mentre i più indifferenti o addirittura ostili furono i contadini, i campagnuoli, che, svanita la speranza di una nuova giustizia sociale e resisi conto che la spedizione dei Mille si era saldata con gli interessi dei proprietari terrieri, guardarono i futuri governanti, “i piemontesi”, con la loro secolare diffidenza verso il nuovo e disertarono la consultazione.

Quali attrattive potevano avere per le misere plebi le parole d’ordine della libertà, dell’indipendenza dallo straniero, dell’annessione ai Savoia, pronunciate da quei “galantuomini” che detenevano tutte le ricchezze e precludevano loro il soddisfacimento dei bisogni più elementari? Era naturale che le masse contadine rimanessero estranee ad ogni iniziativa innovativa che non comportasse un effettivo miglioramento delle condizioni economiche.

Inoltre per spiegare l’unanime consenso all’annessione, va sottolineato che, a Corato come altrove, il plebiscito non si svolse in un clima del tutto libero.

Come si può intuire dalla relazione del sindaco, la segretezza del voto non fu garantita, in quanto chi avesse scelto la scheda del No sarebbe stato facilmente individuato.

In molti paesi del Meridione si parlò di brogli, di clima intimidatorio contro i filoborbonici; in qualche località scoppiarono tumulti (1).

(1) L’anno dopo, nel primo anniversario del Plebiscito, il sindaco Stanislao Quinto fece celebrare la ricorrenza di “un giorno che ricorda il richiamo dei propri diritti manomessi e inculcati da una irrefrenabile tirannide”, con la beneficenza, “con lo stendere una mano amica ai poverelli del Signore”. Fu per i coratini “un giorno sacro che meritava di essere scritto sopra una tavola marmorea imperitura”. Tutta la città la sera venne illuminata e si vedevano anche “i più abbietti tuguri animati da fiaccole che producevano una gioia che terminò nel più colmo della notte.”)

giovedì 27 Aprile 2006

(modifica il 3 Febbraio 2023, 14:32)

Notifiche
Notifica di
guest
0 Commenti
Inline Feedbacks
Vedi tutti i commenti